sabato 22 ottobre 2011

Alla cortese attenzione del dott. Piero Angela

Gentile dott. Angela,
sono un telespettatore che da anni segue le sue trasmissioni e che apprezza il suo sforzo, peraltro egregiamente riuscito, volto a  ritagliare uno spazio riservato alla conoscenza e alla divulgazione all’interno di una televisione sempre più condizionata da logiche di ordine quantitativo piuttosto che qualitativo  e sempre più distante da qualsiasi preoccupazione di tipo formativo. Oggi, tuttavia, io non le scrivo per comunicarle la mia ammirazione, bensì per esprimerle la mia risentita indignazione riguardo alla puntata di Superquark andata in onda lo scorso 11 agosto. Nel corso di tale puntata si è verificato l’intervento di quello storico di cui mi sfugge il nome (sarà forse frutto di una sorta  di “consapevole” rimozione? Credo comunque che si chiami Barbero) ospite fisso della sua trasmissione, in cui in pochi minuti si cercava di dare conto dell’origine del fenomeno camorristico a Napoli. Ebbene, con ineffabile naturalezza, il nostro storico forniva una  spiegazione in chiave antropologica di chiara derivazione lombrosiana di un fenomeno che, invece, come tutti sanno, può essere compreso solo se, deposto ogni pregiudizio di vago sapore razzistico e fatto appello alla propria onestà intellettuale (laddove ve ne sia un briciolo, beninteso), ci si pone in una prospettiva di tipo storico. In buona sostanza, il nostro caro esperto, partendo da un’analisi della Napoli del ‘600 dei tempi di Masaniello, arrivava a sostenere che sin da allora nella città partenopea era presente una matrice culturale di tipo camorristico, e a meglio suffragare tale idea di una sorta di “innata inclinazione al crimine” (non lo dice esplicitamente ma la sostanza del suo pensiero è tale) cita una novella medievale del Boccaccio (di cui non dice il titolo, ma essendo docente di lettere glielo ricordo io: si tratta di Andreuccio da Perugia) ambientata nei bassifondi di Napoli, nel bosco e sottobosco dei cui vicoli si muove un’umanità perduta e dedita al crimine. Dunque già da allora napoletani camorristi o comunque delinquenti, che importanza ha fare di queste sottili distinzioni per uno storico? Ma per rendere ancora più esaustivo e dunque persuasivo il suo excursus   il nostro caro specialista cosa fa? Volge lo sguardo alato e illuminato verso tempi più recenti ed ecco la chicca: a confermare l’idea lombrosiana della natura camorristica e dunque deviata della psiche meridionale ci racconta che quando dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte la fortezza di Fenestrelle si riempì di soldati napoletani questi, udite udite, dediti al gioco d’azzardo, erano controllati da carcerieri  anch’essi napoletani (figuratevi i Piemontesi che mettono dei conterranei a guardia di soldati da loro assai temuti e di cui riconoscevano lo  strenuo eroismo)  che riscuotevano una sorta di “pizzo” su quelle giocate: insomma, terroni erano e terroni rimasero, pure in punto di morte!   
Occorre a questo punto fare un po’ di chiarezza per quei pochi che ancora non avessero le idee sufficientemente chiare. Dire che nella società napoletana del ‘600 vi fossero diffusi comportamenti di tipo mafioso equivale a non dire nulla. Nel ‘600 infatti, come è noto, l’Italia intera, Napoli come Milano, era sotto il malgoverno spagnolo, quando uno Stato lontano se non del tutto assente, che faceva sentire la sua presenza solo con un carico fiscale estremamente gravoso (al Sud sarà così e sempre più dall’arrivo dei Savoia in poi, Giovan Battista Vico parlerebbe di corsi e ricorsi storici!), aveva lasciato il Belpaese nel disordine e nell’assenza di leggi che venissero davvero rispettate. Insomma, un vuoto di potere nel quale era inevitabile che trovassero spazio di manovra i pre-potenti, i signorotti locali e i loro sgherri, sorta di mafiosi ante litteram, insomma l’esatta fotocopia della società lombarda descrittaci da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, con il suo corollario di bravi, dediti di mestiere all’intimidazione e di figure come don Rodrigo  e l’Innominato pre-conversione, che rappresentavano per quella società la vera legge.
Arrivare poi a strumentalizzare una novella del Boccaccio a sostegno della teoria che vuole dimostrare la presenza della devianza nella Napoli medievale è addirittura patetico: tutti sanno come i grandi narratori del naturalismo francese ottocentesco, da Flaubert a Balzac, da Zola a Maupassant, abbiano basato la loro arte sulla raffigurazione del grande affresco della devianza diffusa nei bassifondi della metropoli parigina, colta nelle sue forme più aberranti. Cosa diremo allora dei Francesi, caro il nostro specialista, che sono “naturalmente” disposti al crimine anche loro? Suvvia, riconosciamolo, gli autori francesi sono proprio noti come studiosi della devianza analizzata con criteri positivistici, cioè scientifici, andando essi alla ricerca giusto dei meccanismi psicologici che determinano la genesi del crimine, mentre in fondo Boccaccio è meglio conosciuto per ben altri argomenti. Ma di lui, ahimè, con una vera e propria operazione di tipo  selettivo che fa tanto rima con manipolativo, che cosa ricordiamo? Il contesto che fa da sfondo alle avventure di Andreuccio da Perugia: non sarà dovuto al fatto che in quel contesto si muovevano soggetti napoletani? A proposito, la prostituta che  nella novella entra in contatto con Andreuccio è palermitana, proprio come me, caro professore.
Il punto tuttavia in cui la lezione del nostro storico  finisce di generare ilarità e provoca lo sdegno necessario per impugnare la penna è quando egli parla di Fenestrelle.
A Fenestrelle, proprio nell’imminenza del centocinquantenario dell’unità, Raistoria, con la partecipazione di parecchi storici e con il ricorso a numerosi documenti anche d’archivio, ha dedicato una puntata commovente. Si tratta del più famigerato tra i lager (ve ne erano parecchi: ad Alessandria, San Maurizio Canavese, Lodi, Milano, Bergamo, la fortezza di Priamar presso Savona, Bologna, Parma e tanti altri ancora) che i Savoia all’indomani della brutale (basta consultare i documenti per capire come questo aggettivo costituisca un vero eufemismo, ma siamo in clima di sbornia post-festeggiamenti unitari, evitiamo di usare toni ed argomenti troppo espliciti, lasciando la briga a chi ne abbia voglia di documentarsi) annessione del Sud allestirono per detenere in condizioni che in base alle  cronache del tempo (sinora gelosamente tenute nascoste al grande pubblico) potremmo definire disperate parecchie decine di migliaia ( le stime più attendibili di molti storici parlano di centinaia di migliaia) di  meridionali che si opponevano alla brutalità di quella annessione e a ciò che ne era seguito. E non si trattava solo di soldati borbonici che avendo giurato fedeltà al proprio re e alla propria patria non volevano rinnegare quel giuramento  per passare ad un altro esercito, come avrebbero voluto i Savoia, ma anche di semplici contadini, di donne, bambini, preti soprattutto, che relegati in una totale promiscuità scontavano la colpa di essere magari solo sospettati di avere a vario titolo sostenuto la causa della resistenza dei partigiani delle Due Sicilie, quelli che come scrive Antonio Gramsci “storici salariati hanno infamato con il nome di briganti”.  Ebbene, il più famigerato di questi lager fu proprio Fenestrelle, imponente struttura militare posta sulle Alpi torinesi tra i 1300 e i 2000 metri, dove come documentato anche da Raistoria la vita media non superava mai i tre mesi (laddove non ci si suicidava prima, come accaduto i numerosissimi casi), dove gli infissi erano stati divelti per rendere ancora più atroce la sofferenza di quei poveretti malvestiti, abituati “al dolce clima delle loro contrade d’origine” come si leggeva su Civiltà Cattolica (i numerosi certificati di morte dei prigionieri  mostrati su Raistoria e consultabili  su Internet segnalano nella massima parte dei casi come causa di morte “crisi respiratoria”, morti di freddo, in altre parole), dove si entrava accolti da una scritta posta sulla cancellata d’ingresso che recitava “ognuno vale non per ciò che è, ma per ciò che produce” (le ricorda qualcosa, esimio professore? A  me che mastico un po’ di tedesco un “Arbeit macht frei” , posto sulla cancellata d’ingresso di qualche altra località che adesso non ricordo…  ah ecco, ci sono, si trattava di Auschwitz!) e si usciva da morti gettati nella calce viva (i forni non li avevano ancora inventati!) contenuta in un’apposita vasca ancora visibile alle spalle della chiesetta della fortezza.
Recentemente l’amministrazione di Fenestrelle ha sentito il dovere di dedicare ai soldati borbonici morti in quell’inferno una lapide a conclusione di una toccante cerimonia documentata dal TG 3 Regione Piemonte. Nella targa si ricorda l’eroismo di uomini che, si dice , tra indicibili sofferenze preferirono morire piuttosto che rinnegare il proprio giuramento. “I pochi che sanno si inchinano”, conclude l’iscrizione, ma il suo peccato, caro professore, evidentemente non è il non sapere, bensì il non inchinarsi. Cosa direbbe lei da storico, se un suo collega tedesco, prima ancora di illustrare al grande pubblico le atrocità di cui furono fatti oggetto i soldati italiani prigionieri in Germania dopo l’8 settembre per il semplice fatto che si rifiutavano di passare dalla parte dei Tedeschi, si arrogasse il diritto di giudicare come mafiosi gli Italiani sulla base di chissà quale pettegolezzo riferito alla condotta di quei prigionieri? Direbbe che quel suo collega manca di onestà intellettuale. E’ esattamente quello che ho pensato io di lei, caro professore. Non è che su una serena e obiettiva valutazione della storia di questi ultimi 150 anni grava il giudizio di quegli ”storici salariati” di cui parla Antonio Gramsci?
Quanto alle vere ragioni della genesi e dello sviluppo del fenomeno mafioso, che si accompagna e si amplia a partire dall’occupazione piemontese in poi, beh, si tratta di materia così ampia che mi riservo di scriverle in seguito un’altra lettera . E le assicuro che non mancheranno gli argomenti, visto che tra l’altro, oltre ad essere cultore della materia, vivo pure a Palermo e ho avuto pure l’onore di prestare servizio nella Polizia di Stato, in certi turni anche al fianco di Giovanni Falcone e di parecchie delle vittime di Capaci e di via D’Amelio.
Per il momento le consiglio una lettura: si tratta di un saggio pubblicato qualche anno fa  da un autore inglese, Denis Mack Smith, dal titolo La storia manipolata, in cui l’autore anglosassone indica proprio nella mistificazione operata nel corso dei  150 anni da parte della storiografia ufficiale sui fatti seguiti all’annessione del Regno delle Due Sicilie un esempio paradigmatico e di portata mondiale sinora ineguagliata di come i vincitori manipolino a loro vantaggio la realtà dei fatti. Buona lettura e auguri, magari con la sua opera riuscirà a meritarsi una citazione in appendice al lavoro  dello Smith.
A lei, dott. Angela, auguro invece per la prossima volta maggior fortuna nella scelta dei suoi collaboratori, ispirato da quell’equilibrio, da quella affabilità e da quella competenza che non le hanno mai fatto difetto.        
 Cordiali saluti
 Raimondo Augello


Noi meridionali siamo mafiosi per corredo genetico?

Noi meridionali siamo mafiosi per corredo genetico? Sembrerebbe che i tempi di Lombroso siano lontani e che si sia capito come mafia e camorra siano fenomeni storico-sociali assai complessi. Qualche volta, però, si direbbe che ce ne si dimentichi e tornino i pregiudizi più stantii. Questa, per lo meno, l’impressione che come telespettatore ho ricevuto ad agosto di quest’anno seguendo una trasmissione (per altro di solito apprezzabile) di Piero Angela. Nel corso di tale puntata, infatti, lo storico Alessandro Barbero - ospite fisso della trasmissione – ha cercato di dare conto,  in pochi minuti, dell’origine del fenomeno camorristico a Napoli. In buona sostanza, il nostro ‘esperto’, partendo da un’analisi della Napoli del ‘600 dei tempi di Masaniello, arrivava a sostenere che sin da allora nella città partenopea fosse presente una matrice culturale di tipo camorristico.  A suffragio della tesi, due riferimenti dotti. Il primo a  una novella del Boccaccio (Andreuccio da Perugia) ambientata nei bassifondi di Napoli, nel bosco e sottobosco dei cui vicoli si muove un’umanità perduta e dedita al crimine. Dunque già da allora napoletani camorristi o comunque delinquenti? Se così fosse, antesignani della malavita sarebbero i personaggi di tre quarti della letteratura mondiale: per esempi dei grandi narratori del naturalismo francese ottocentesco, da Flaubert a Balzac, da Zola a Maupassant. Diremo dei Francesi che sono “naturalmente” disposti al crimine anche loro?  Non meno opinabile il secondo riferimento alla società napoletana del ‘600. In quell’epoca, infatti, come è noto, l’Italia intera (Napoli come Milano) era sotto il malgoverno spagnolo: uno Stato lontano, se non del tutto assente, che faceva sentire la sua presenza solo con un carico fiscale estremamente gravoso (al Sud sarà così e sempre più dall’arrivo dei Savoia in poi, Giovan Battista Vico parlerebbe di corsi e ricorsi storici!), aveva lasciato il Belpaese nel disordine e nell’assenza di leggi che venissero davvero rispettate. Insomma, un vuoto di potere nel quale era inevitabile che trovassero spazio di manovra i pre-potenti, i signorotti locali e i loro sgherri, sorta di mafiosi ante litteram, insomma l’esatta fotocopia della società lombarda descrittaci da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, con il suo corollario di bravi, dediti di mestiere all’intimidazione e di figure come don Rodrigo  e l’Innominato pre-conversione, che rappresentavano per quella società la vera legge.
    Per rendere ancora più persuasivo il suo excursus, Barbero volge lo sguardo verso tempi più recenti ed ecco la chicca: a confermare l’idea lombrosiana della natura camorristica - e dunque deviata - della psiche meridionale ci racconta che, quando dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte la fortezza di Fenestrelle si riempì di soldati napoletani, questi, dediti al gioco d’azzardo, erano controllati da carcerieri  anch’essi napoletani (figuratevi i Piemontesi che mettono dei conterranei a guardia di soldati da loro assai temuti e di cui riconoscevano lo  strenuo eroismo!)  che riscuotevano una sorta di “pizzo” su quelle giocate: insomma, terroni erano e terroni rimasero, pure in punto di morte!   Ma ci rendiamo conto di cosa evochi la fortezza di Fenestrelle? Proprio nell’imminenza del centocinquantenario dell’unità, Raistoria, con la partecipazione di parecchi storici e con il ricorso a numerosi documenti anche d’archivio, le ha dedicato una puntata commovente. Si tratta del più famigerato tra i lager (ve ne erano parecchi: ad Alessandria, San Maurizio Canavese, Lodi, Milano, Bergamo, la fortezza di Priamar presso Savona, Bologna, Parma e tanti altri ancora) che i Savoia all’indomani della annessione del Sud allestirono per detenere  - in condizioni che in base alle  cronache del tempo (sinora gelosamente tenute nascoste al grande pubblico) potremmo definire disperate -  parecchie decine di migliaia ( le stime più attendibili parlano di centinaia di migliaia) di  meridionali che si opponevano alla brutalità di quella annessione e a ciò che ne era seguito. E non si trattava solo di soldati borbonici che avendo giurato fedeltà al proprio re e alla propria patria non volevano rinnegare quel giuramento  per passare ad un altro esercito, come avrebbero voluto i Savoia, ma anche di semplici contadini, di donne, bambini, preti soprattutto, che relegati in una totale promiscuità scontavano la colpa di essere magari solo sospettati di avere a vario titolo sostenuto la causa della resistenza dei partigiani delle Due Sicilie, quelli che come scrive Antonio Gramsci “storici salariati hanno infamato con il nome di briganti”.  Ebbene, il più famigerato di questi lager fu proprio Fenestrelle, imponente struttura militare posta sulle Alpi torinesi tra i 1300 e i 2000 metri, dove come documentato anche da Raistoria la vita media non superava mai i tre mesi (laddove non ci si suicidava prima, come accaduto in numerosissimi casi), dove gli infissi erano stati divelti per rendere ancora più atroce la sofferenza di quei poveretti malvestiti, abituati “al dolce clima delle loro contrade d’origine” come si leggeva su “Civiltà Cattolica”  (i numerosi certificati di morte dei prigionieri  mostrati su Raistoria e consultabili  su Internet segnalano nella massima parte dei casi come causa di morte “crisi respiratoria”, morti di freddo, in altre parole), dove si entrava accolti da una scritta posta sulla cancellata d’ingresso che recitava “ognuno vale non per ciò che è, ma per ciò che produce” (ci ricorda qualcosa? ) e si usciva da morti gettati nella calce viva (i forni non li avevano ancora inventati!) contenuta in un’apposita vasca ancora visibile alle spalle della chiesetta della fortezza. Recentemente l’amministrazione di Fenestrelle ha sentito il dovere di dedicare ai soldati borbonici morti in quell’inferno una lapide a conclusione di una toccante cerimonia documentata dal TG 3 Regione Piemonte. Nella targa si ricorda l’eroismo di uomini che, si dice , tra indicibili sofferenze preferirono morire piuttosto che rinnegare il proprio giuramento. “I pochi che sanno si inchinano”, conclude l’iscrizione: ma il peccato di molti, anche ‘esperti’ , non è il non sapere, bensì il non inchinarsi. Cosa direbbe uno storico italiano se un collega tedesco, prima ancora di illustrare al grande pubblico le atrocità di cui furono fatti oggetto i soldati italiani prigionieri in Germania dopo l’8 settembre per il semplice fatto che si rifiutavano di passare dalla parte dei Tedeschi, si arrogasse il diritto di giudicare come mafiosi gli Italiani sulla base di chissà quale pettegolezzo riferito alla condotta di quei prigionieri? Purtroppo non ha perduto attualità il saggio pubblicato qualche anno fa  da Denis Mack Smith, La storia manipolata, in cui l’autore anglosassone indica proprio nella mistificazione operata nel corso dei  150 anni da parte della storiografia ufficiale sui fatti seguiti all’annessione del Regno delle Due Sicilie un esempio paradigmatico e di portata mondiale sinora ineguagliata di come i vincitori manipolino a loro vantaggio la realtà dei fatti.

Raimondo Augello


LA SCUOLA CHE HO TROVATO,LA SCUOLA CHE LASCIO

Poiché secondo il movimento filosofico in cui mi riconosco (la Philosophische Praxis di Gerd Achenbach riletta in Italia da Neri Pollastri) ogni filosofo deve ridurre al minimo la distanza fra le parole che parla e la vita che vive, mi piace partire da un dato autobiografico: dopo cinque anni di frequenza come alunno, sono uscito dal Liceo "Garibaldi" alla fine dell'anno scolastico 1968 - 1969 ed oggi, alla fine dell'anno scolastico 2008 - 2009, dopo altri dieci anni di frequenza come insegnante, mi appresto a congedarmi dal medesimo liceo per iniziare la terza (e ultima) fase della mia vicenda mortale. Una parabola di quaranta anni esatti, come si può notare: abbastanza, suppongo, per poter riflettere sulla scuola che ho trovato da giovane alunno e sulla scuola che lascio da anziano docente. 
     
    La scuola degli anni Sessanta
    Anche se ai vecchi lo si perdona facilmente, trovo disdicevole la tendenza a ricordare il passato soffuso di luci senza ombre e a dipingere a tinte fosche il presente. Perciò voglio esprimermi con la massima chiarezza possibile: la scuola che ho frequentato da alunno nel quinquennio 1964 - 1969 aveva molti pregi, ma sostanzialmente risultava insopportabile.
      Tra i pregi che mi vengono immediatamente alla memoria, un senso complessivo di serietà istituzionale. Le figure dei presidi, dei loro collaboratori più stretti, della stragrande maggioranza dei professori incutevano  - o, per lo meno, suggerivano - atteggiamenti di rispetto nei loro confronti. In loro presenza (quindi non solo quando ci si rivolgeva a loro, ma anche quando ci si rivolgeva a coetanei o a bidelli) era semplicemente inimmaginabile fumare, schiamazzare, alzare la voce urlando, darsi al turpiloquio. Ancor meno immaginabile era uscire ed entrare a piacimento dai locali dell'istituto per recarsi al bar o per fare un giro in moto durante qualche ora di lezione particolarmente noiosa.
      Questa atmosfera - in sé apprezzabile e che mi è capitato tanto spesso di rimpiangere nella mia carriera di docente - comportava però dei risvolti assai meno gradevoli. Per ricorrere anche qui ad una formula complessiva (dunque inevitabilmente generica) direi che il prezzo più alto era costituito da una ipocrisia sistemica. La facciata di ordine, di buona educazione, di rispetto delle gerarchie e delle competenze nascondeva del marcio insopportabile. Una sorta di sciovinismo provinciale impediva di riconoscere manchevolezze, difetti, oggettive inadeguatezze: dalla debolezza di certi dirigenti che assistevano impotenti alla severità persecutoria di alcuni professori nei confronti degli alunni alla scarsa preparazione di altri docenti che o non conoscevano abbastanza le proprie discipline o non conoscevano il modo di comunicarle in aula. Anche tra quei pochi che erano preparati e che sarebbero stati in grado di esternare didatticamente la propria competenza non mancavano quelli che difettavano di diligenza: arrivavano puntualmente in ritardo, si stravaccavano annoiati sulla cattedra, si lasciavano facilmente indurre a chiacchierare di sport o di gossip televisivo (pur di non spiegare la Divina Commedia o la Prima guerra mondiale). E' vero: i ragazzi non fumavamo per i corridoi (i professori e il personale amministrativo ed ausiliare, invece, sì), ma ci si chiudeva dentro i cessi per farlo; non si dicevano parolacce a voce alta, ma le si incidevano nei banchi, nelle pareti, nelle mura esterne; non si criticava apertamente la didattica dell'insegnante, ma ogni occasione era buona per farne l'imitazione caricaturale (talvolta volgare, talaltra davvero acuta e divertente).
     Dunque si viveva all'incrocio di queste due dimensioni contraddittorie: un'impressione di serietà istituzionale e una diffusa ipocrisia sistemica. Il risultato più doloroso  - e alla lunga più pernicioso - di questo groviglio lo si registrava, ovviamente, nei percorsi di apprendimento. C'era  (e lo si vedeva sempre più chiaramente man mano che crescevamo in istruzione e in maturità) uno iato fra la supponenza dei professori  - che nel portamento, nell'abbigliamento, nel modo di relazionarsi anche con i genitori, davano a intendere di essere 'luminari', se non altro perché titolari di cattedra in un liceo pubblico di indiscusso prestigio - e il loro effettivo valore professionale. Nella migliore delle ipotesi, trasmettevano nozioni e nozioni si attendevano da noi come verifica dell'apprendimento. La maggior parte di loro sono ormai defunti e, se qualcuno ancora vive, non mi pare elegante aprire polemiche ad personam. Preferisco dunque evocare tre nomi, che certamente rientravano nel novero delle felici eccezioni, di insegnanti che tenevano a stimolare la nostra capacità critica: Giuseppe Bellafiore (accurato studioso di arte e di urbanistica),  Andrea Brigaglia  (geniale cultore di matematica e di fisica), Vito Muciaccia (fine classicista ed egli stesso autore di liriche).  Sarebbe troppo lungo spiegare perché ho avuto contatti sporadici con i primi due  e durevoli con il terzo: ciò che qui mi preme sottolineare è la loro consapevole volontà di non dare per scontato che si dovessero studiare le loro discipline, di problematizzarne il senso e lo statuto epistemologico. Potrei dire - e l'affermazione non suonerebbe lusinghiera per i docenti di filosofia di quel periodo, ingabbiati nella routine dei programmi ministeriali  - che essi insegnavano le loro 'materie' con spirito genuinamente filosofico. Una splendida, davvero indimenticabile, conferma l'avemmo il giorno nel quale un compagno - di animo particolarmente delicato - sottolineò con una pernacchia fragorosa l'enfasi con  cui Muciaccia aveva concluso la lettura di una poesia di Catullo. Ci guardammo stupiti: questa volta il professore così tollerante, così comprensivo, per dirla tutta così poco adatto a tenere in pugno una classe di diciottenni abbastanza scalmanati (anche perché si era in pieno Sessantotto!), sarebbe esploso certamente! Ma  - con una elasticità mentale e  temperamentale davvero sorprendente - ci spiazzò tutti quanti. "La pernacchia" - esordì - "costituisce una presenza discreta, ma ricorrente, nella letteratura greca e latina. In Omero, ad esempio...": e lì un'ora e mezza di narrazione e citazioni e commenti seguendo il più insolito 'filo rosso' delle spiegazioni mai ascoltate al liceo Garibaldi. E forse non solo lì. Non so se L. C. sia stato in grado di apprezzare la raffinatezza della 'lezione' con cui il professore di lettere classiche aveva reagito alla sua goliardata un po' balorda. Certo è che, ai miei occhi, quel colpo d'ala pedagogico e intellettuale bilanciava ore, mesi, anni di lezioni mnemoniche  - con tono talora soporifero talora nevrotico - tenute, solitamente, dagli altri suoi colleghi.

La scuola del post-sessantotto
          Quando, nell'autunno del '68,   arrivarono anche a Palermo le onde del maggio francese,  il nostro liceo fu tra i primissimi - se non il primo - a recepirle. Già negli anni immediatamente a ridosso, un gruppo di noi alunni avevamo dato vita a un giornalino di istituto costretto al filtro di una censura ridicola (a cui rispondemmo pubblicando i titoli delle poesie e degli articoli censurati con i relativi spazi in bianco). A dicembre iniziò il rito (che sarebbe diventato, nei decenni successivi, irrinunciabile) della 'occupazione' della scuola per protesta. Tra i promotori delle prime assemblee di base - del tutto illegali, s'intende - non mancavano le differenze ideologiche e strategiche (che non di rado sfociavano in tensioni e in conflitti), ma ci accomunava una forte insoddisfazione verso il sistema scolastico (e, più ampiamente, sociale) in cui ci trovavamo storicamente inseriti.
         La 'contestazione', come si chiamò il movimento studentesco dell'epoca con un neologismo che si diffuse rapidamente sino all'inflazione, sembrò spazzare in pochissimi anni un assetto consolidato che sembrava inossidabile: le proteste giovanili si legarono alle rivendicazioni operaie e alle mobilitazioni femministe. Non è questa la sede per tentare il difficile bilancio complessivo del decennio 1968 - 1977: è già abbastanza arduo limitarsi al mondo della scuola. Comunque, se dovessi sintetizzare in una asserzione netta le mie convinzioni, non avrei dubbi: con la tempesta del Sessantotto la scuola ha perduto molto, ma meno di quanto abbia guadagnato. La scuola che lascio quaranta anni dopo è, tutto sommato, meno brutta di quella che ho trovato allora. E' una scuola meno auto-referenziale (sa che dirigente, insegnanti, personale amministrativo ed ausiliare non sono i 'padroni' ma, con le famiglie e con gli alunni, i co-gestori dell'istituzione); meno autoritaria (il potere del dirigente sugli insegnanti e degli insegnanti sugli alunni è limitato da paletti giuridici sempre meglio specificati); meno nozionistica (i docenti cercano di ridurre la quantità degli argomenti da trattare per favorire la qualità dell'apprendimento)...
    Tuttavia, dire "meno brutta" non  equivale a dire "bella". La scuola che lascio non è ancora ciò che l'etimo greco (scholé) prometterebbe: un luogo di 'otium' , di piacere, di festa della conoscenza e del sapere, nel quale si sperimenta una gioia intensa e duratura di cui  nessun 'neg-otium' (per quanto necessario alla vita terrena) dovrebbe cancellare completamente le tracce. Non è ancora un laboratorio di democrazia dove si impara il mestiere di cittadini, il gusto della partecipazione, la felicità della pro-attività a favore del bene comune, a cominciare dei diritti degli impoveriti del pianeta.
     Se c'è una cosa che non è mutata significativamente da prima a dopo il Sessantotto, è il clima di illegalità sistemica che permea  - soprattutto nel Meridione italiano - la vita scolastica. Sin dal primo impatto, i ragazzi constatano che la legge non è uguale per tutti: i figli delle famiglie 'bene' hanno molto più probabilità dei figli di 'nessuno' di essere assegnati alle sezioni 'giuste' (già il solo fatto che ci siano sezione 'ambite' e sezioni 'da evitare' costituisce una macchia vergognosa). Dopo qualche mese constatano che gli educatori adulti sono i primi a non rispettare le regole (arrivano in ritardo, posteggiano davanti all'entrata della scuola in perfetta zona rimozione, fumano nei locali scolastici, si rifiutano di autorizzare le assemblee di classe nelle ore delle loro lezione, usano espressioni aggressive e offensive nei confronti degli alunni e delle loro famiglie...). A fine d'anno, infine, si accorgono che la valutazione dei docenti non è equanime: il nipote del professore o la figlia della signora che lavora in amministrazione ottengono dei voti migliori, a parità di meriti (o di...demeriti), rispetto ai compagni che non hanno "santi in paradiso". 
     Ma, anche a non voler considerare le situazioni moralmente più degradate del Sud, lo sguardo complessivo sulla scuola italiana non riposa certo su un panorama idilliaco. Che cosa manca alla scuola di oggi per diventare ciò che ogni ragazzo si aspetterebbe o, per lo meno, di cui avrebbe oggettivamente bisogno? Si potrebbe stilare una lunga serie di desiderata di carattere finanziario, legislativo, organizzativo...I sindacati hanno, o dovrebbero avere, il compito di tenere vive queste rivendicazioni (mentre sembrano molto più preoccupati di difendere i privilegi acquisiti dai loro dirigenti) . Ma nulla cambierà davvero se non muterà radicalmente il reclutamento degli insegnanti. Dall'inizio della Repubblica ad oggi tutti i governi hanno stipulato un patto tacito con i docenti: vi assumiamo facilmente, senza seri filtri selettivi; una volta assunti, non vi sottoponiamo a nessuna verifica in itinere; in cambio, vi paghiamo poco e vi neghiamo qualsiasi progressione di carriera significativa (a meno che non siate disposti a mutare mestiere, diventando dirigenti o ispettori ministeriali). Questo patto scellerato ha provocato disastri incalcolabili. Ormai posso contare decine di generazioni di alunni: quasi nessuno dei più intelligenti, dei più preparati, dei più motivati ha scelto di insegnare. E con ragioni lucidissime: "Professore, non ce la sentiamo di vivere 'romanticamente' con stipendi da fame e senza una prospettiva di riconoscimento dei meriti". Ma se non si spezza questo patto scellerato, la categoria degli insegnanti degraderà inarrestabilmente: le personalità forti, creative, affascinanti si terranno lontano dalle cattedre, lasciando il posto a persone (nelle migliori delle ipotesi, oneste e discretamente istruite) di scarso carisma, di fioca passione, non innamorate di ciò che insegnano né degli allievi a cui dovrebbero contagiare l'innamoramento. Se continua questo trend negativo, se non si riesce ad invertirlo con provvedimenti legislativi ed amministrativi radicali, la scuola toccherà dei livelli talmente bassi che sarà improbabile risalire la china. So che non è il momento politico-culturale più adatto per permettersi previsioni ottimistiche. Secondo il politico più influente dell'ultimo ventennio in Italia  (che, parafrasando una sua auto-definizione, è stato il peggiore degli ultimi 150 anni) la scuola avrebbe dovuto concentrarsi su tre "i": informatica, inglese, imprenditoria. Sinora, almeno nel Meridione italiano, ho visto poca informatica, poco inglese, ancor meno cultura d'impresa. Il risultato è che la scuola del futuro si profila all'insegna di altre "i": ignoranza, insensibilità, indifferenza. Tuttavia, se si riflette sulle vicende umane, si impara che la storia sorprende non solo in negativo, ma talora anche in positivo. Perché escludere, dunque, che un sussulto di dignità e di buon senso possa convincere la maggioranza dei cittadini  - e, in prospettiva, dei parlamentari - della necessità di modificare la politica scolastica attuale? Perché escludere che cambino radicalmente le regole in modo che intraprendere la professione di insegnante diventi più difficile  ma, se si riesce a superare il filtro selettivo, anche più gratificante?

Augusto Cavadi

SUL CENTENARIO DI LORENZO PANEPINTO - “Centonove” 5.8.2011

Nonostante vengano considerati tra i più consistenti movimenti rivoluzionari del XIX secolo, i “Fasci” siciliani restano quasi del tutto ignoti alle nuove generazioni. Ed è già un gran risultato se quel gigantesco tentativo dei contadini di occupare le terre incolte, per sfamare le proprie famiglie e rilanciare l’economia complessiva, non venga identificato con la nascita del fascismo un quarto di secolo dopo.
   Il 2011 è una data propizia per ricordarsene: esattamente cento anni fa, infatti, veniva assassinato Lorenzo Panepinto, storico fondatore dei “Fasci” a Santo Stefano Quisquina, ai confini fra le province di Agrigento e di Palermo. La sua città natale, dove egli ha pure tentato l’esperimento di un “socialismo municipale”, lo ha ricordato con una giornata di commemorazioni e di studi, con l’intento di esplorarne la poliedrica personalità. Egli infatti non è stato solo dirigente politico, sindacalista e imprenditore sociale, ma anche insegnante appassionato, pubblicista fecondo, pittore di discreto pennello, poeta sincero, direttore didattico attivo  e pedagogista aperto alle correnti europee più progressiste della sua epoca. Nel corso del convegno sono stati presentati anche dei documenti inediti in Italia che uno studioso statunitense ha gentilmente spedito da Tampa (Florida) , la città dove Panepinto è emigrato e ha lavorato per un certo periodo della sua vita.
     Ma cosa ha segnato la fine dell’eroico militante, “socialista senza aggettivi”, falciato sull’uscio di casa con due fuciltate? Come nel caso di due colleghi e amici, il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, la sua capacità di organizzare cooperative di braccianti per gestire in gabella ex-feudi a cui erano, contemporaneamente, interessati anche personaggi o mafiosi o vicini ad ambienti mafiosi. Uno di questi, il giovane campiere Anzalone, verrà indicato come l’assassino, ma il delitto resterà impunito: una testimone verrà sequestrata e eliminata; un capitano dei carabinieri si appellerà a “ragioni d’ufficio” per non testimoniare; un commissario Montalbano si appellerà – per il medesimo scopo  – a “motivi di famiglia”.  Forse non è stata del tutto ininfluente, sul destino dell’imputato, la condizione di “figlioccio” del ministro Camillo Finocchiaro Aprile…In assenza di verità giudiziaria, ci si deve accontentare della verità storica: secondo lo stesso Bernardino Verro, i mandanti vanno individuati nella  “sollevazione della mafia gabellota e clericale contro gli organizzatori delle affittanze collettive”. Ed è un fatto di per sé eloquente che Panepinto non potè intervenire al congresso su “Delinquenza e analfabetismo” (programmato per qualche giorno dopo il suo omicidio ad Agrigento) e che il ministro di Grazia e giustizia Finocchiaro Aprile, nell’inaugurare il congresso, non abbia degnato di un accenno, il recentissimo delitto di un importante dirigente politico siciliano che aveva dedicato e la vita proprio alla lotta contro delinquenza e analfabetismo.
Sul suo periodico “La Plebe”, Panepinto  denunciava i “malfattori in guanti gialli”, ministri o deputati “protettori protetti” delle “cosche”, le quali “coltivano la maffia, poiché si servono preferibilmente di essa per raggiungere scopi vergognosi, e per sopprimere qualche persona che riesce loro d’impaccio”: formule che, al di là dell’impatto emotivo immediato, restano di una lucidità analitica purtroppo attualissima. Come sciaguratamente attuale rimane il monito dell’onorevole Alessandro Tasca di Cutò, davanti alla bara del martire avvolta in una bandiera rossa, rivolto ai funzionari governativi: “È tempo di decidersi: o con la maffia padronale o con l’evoluzione economica e civile dei lavoratori siciliani”.

           Augusto Cavadi
            Luigi Capitano

Due alunne e un professore in dialogo sulle macerie della scuola

Tutti condividiamo il fine della protesta, ma non il mezzo con cui raggiungerlo: l’occupazione delle scuole. Alcuni ritengono che sia un pretesto per saltare lezioni. Per quanto criticabile dal punto di vista legale, questa forma di protesta si è rivelata finora quella più capace di coinvolgere gli studenti di molti istituti in una lotta unitaria. Pensate che ci sia divertimento dentro le scuole occupate? Vi sbagliate! C’è rabbia, mista alla ricerca di proposte per portare avanti la nostra causa. Ma qual è questa causa?
* NO a un futuro compromesso da una riforma che ci costringerà alla precarietà;
* NO alla distruzione delle scuole pubbliche a favore di quelle private: la cultura è un diritto inderogabile per tutti
* NO ai tagli che nel nostro liceo (il “G. Garibaldi” di Palermo)  impediscono agli studenti di usufruire di una palestra;
* NO all’aumento delle tasse universitarie, che precluderebbero l’istruzione a studenti non in grado di pagarle;
* NO ai tagli del numero di professori, che impediscono il regolare svolgimento delle lezioni e hanno già causato nelle università un ritardo dell’inizio  delle lezioni;
* NO ai tagli e al disinteresse per i fondi destinati alla ricerca.
* NO alla riduzione del numero di classi, che costringe a portare avanti un programma con classi di trenta o più alunni;
* NO ai tagli delle ore scolastiche. In particolare NO alla riduzione delle ore di italiano, per non rendere la nostra stessa lingua una lingua straniera ed evitare di ritrovarci professionisti incapaci di esprimersi in un italiano corretto. NO alla fusione delle materie di storia e geografia: abbiamo bisogno di conoscere il mondo in cui viviamo e soprattutto le nostre radici storiche, per non mortificare la nostra identità. NO all’eliminazione delle discipline sperimentali nei licei. Ci risulta deleterio il provvedimento che elimina lo studio della storia dell’arte al biennio in un liceo classico.
Molti si interrogano sull’utilità della protesta. Non vogliamo essere scambiati per sognatori, ma essere presi sul serio: puntiamo a un risultato concreto. In questi giorni abbiamo fatto sentire la nostra voce: qualcosa si è mosso, tutta Italia è in fermento, siamo riusciti ad attirare i media. A questo punto, mentre il Parlamento discute sull’approvazione della legge finanziaria, ha il nostro parere. Teniamo a ricordare il principio su cui si dovrebbe basare un governo democratico: i parlamentari sono i NOSTRI rappresentanti! La sovranità non appartiene agli uomini eletti nelle istituzioni, ma al POPOLO! A differenza di quanto molti pensano, NOI SAPPIAMO COSA VOGLIAMO PER IL NOSTRO FUTURO!
Ci rendiamo conto di come il nostro Paese stia andando incontro a una crisi economica, politica e culturale. Il governo non fa altro che preoccuparsi di mantenere la maggioranza e quindi tenersi stretto il “trono”...ma chi si interessa veramente alle sorti dell’Italia?  Siamo convinti di poter far fronte alla crisi attraverso una politica di risparmio. Un risparmio, però, che non colpisca la cultura, che è il mezzo mediante il quale i giovani possono sviluppare una coscienza critica e quindi non sottomettersi al volere altrui. Uno dei nostri striscioni reca la scritta: “I soldi per l’istruzione esplodono in Afghanistan”. Sarebbe opportuno ritirare l’esercito dall’Afghanistan,dunque impiegare il denaro per ciò che è veramente utile! Bisognerebbe valorizzare il patrimonio culturale che l’Italia, non lasciare al degrado siti storici come Pompei. Ognuno deve pagare le tasse regolarmente, c’è bisogno di più controllo contro l’evasione fiscale. Poi, perché non far pagare l’ICI anche alla Chiesa cattolica? Infine riteniamo opportuno un risparmio che cominci dal singolo cittadino, nel suo piccolo, perché è dalle piccole cose che nascono le grandi cose.                                                        
AIUTATECI AFFINCHE’ TUTTO CIO’ NON SIA SOLO UN’UTOPIA, MA DIVENTI UN SOGNO REALIZZABILE!!!
                                                                Agnese e Roberta, “Garibaldine”

Care Agnese e Roberta, sono compiaciuto della vostra lettera onestà intellettuale. Dico subito che sui fini della protesta sono quasi del tutto d’accordo. Andiamo direttamente ai metodi scelti. Che sia palesemente illegale non solo astenervi dalla fruizione di un servizio che avete pagato con le tasse, ma  tentare di impedire ad altri compagni l’esercizio del loro diritto allo studi, non ritengo sia necessario dimostrarlo. Ci sono – è vero - casi in cui “l’obbedienza non è più una virtù” e infrangere la legalità può essere lecito, anzi doveroso. Ma quando un parlamento eletto democraticamente vara una riforma del sistema universitario e scolastico a maggioranza, siamo di fronte a una legalità solo formale e non sostanziale? In nome di quale etica superiore studenti e professori (ammesso che siano tutti d’accordo) potrebbero sospendere le regole costituzionali? Il popolo ‘sovrano’ a cui fate riferimento sono i 40 milioni di italiani che hanno diritto di voto (e che con il voto, o con l’astensionismo, hanno permesso questo governo) o sono i 10 milioni di studenti in rivolta? Quando sono gli spazzini o i controllori di volo o i neurochirurghi a ribellarsi a una normativa li tacciamo, giustamente, di ‘corporativismo’: perché il principio “la maggioranza vince” dovremmo contestarlo quando siamo in minoranza?
    Ma ammettiamo che ci siano delle ragioni etiche talmente evidenti da legittimare l’illegalità dei metodi. Rimane la terza questione, decisiva: occupare le scuole è funzionale allo scopo? Alcuni intoppi parlamentari delle proposte governative vi danno l’illusione ottica che sia così. A me sembra che ciò sia due volte sbagliato. Sia nell’immediato perché, se “Futuro e libertà” non avesse conti da regolare con PDL e Lega, la maggioranza avrebbe retto senza ostacoli. Ma anche se la “riforma Gelmini”  fosse temporaneamente bloccata in parlamento come effetto della vostra contestazione, che cosa ci aspetterebbe in futuro? Ammettiamo  l’ipotesi più rosea: cade questo governo, si scioglie il parlamento, si indicono nuove elezioni. Bene: che cosa insegnano gli ultimi anni di storia italiana, dal 1968 a oggi? Il 20% degli studenti voterà per uno schieramento (anche minoritario) che abbia delle idee più chiare in fatto di scuola; il 20% degli studenti, consapevolmente, rivoterà esattamente per quei partiti che oggi contesta perché riterrà che ci siano ‘valori’ più importanti dell’istruzione da salvaguardare; il restante 60% continuerà a fare esattamente quello che sta facendo in queste settimane (o non prenderà posizione o si scomoderà, ogni tanto, dal divano per recarsi a votare secondo ciò che in quel momento gli sembrerà più utile egoisticamente). Cara Agnese e Roberta, non ho nulla contro il 20% degli alunni onesti (anche se un po’ abbagliati) come voi due; non ho neppure nulla contro il 20% dei vostri colleghi che, altrettanto onestamente (e ancor più abbagliati di voi), saranno sempre pronti a schierarsi per la conservazione dell’esistente; ma mi fa orrore quel 60% di qualunquisti, di opportunisti. Non saranno né migliori né peggiori del 60% di noi adulti attuali, genitori o insegnanti. O vi preparate, come tutte le dittature popolari, a tagliare milioni di teste o vi preparate (anche mediante la partecipazione a partiti, sindacati, movimenti, associazioni) a riformare le coscienze e a creare nuove maggioranze (non solo quantitative, ovviamente). In questa seconda direzione continuerete ad avermi accanto nei tempi e nei modi che vorrete; nel primo caso sarò esattamente dove mi trovo dal ’68 in poi: dalla parte opposta.

                                    Augusto Cavadi