sabato 31 dicembre 2011

SE LE FESTE CI RIVELASSERO IL SEGRETO DELLA MESCOLANZA “REPUBBLICA – PALERMO” 28-12-2011

   
Natale, capodanno, epifania: feste in fila, inanellate, che ciascuno vivrà a modo suo. Secondo la propria visione del mondo che può implicare una delle molte fedi religiose presenti ormai in Sicilia (dall’ebraismo al cattolicesimo, dal protestantesimo all’islamismo, dall’induismo al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo, al baha-i) o nessuna (anche l’ateismo, non necessariamente suggerito da furie consumistiche, ma meditato e degno di rispetto, è ampiamente rappresentato nella nostra regione come nel resto dell’Europa contemporanea). Che nel cuore del Mediterraneo via sia un’isola dove questa convivenza di credi e di filosofie sia quotidiana è già una buona notizia: tanto più apprezzabile se comparata a secoli e secoli  - sino all’avvento della Repubblica italiana – di diffidenze e persecuzioni (almeno da quando, nel 1492, la regina Isabella di Castiglia non spezzò la pacifica convivenza fra le tre religioni del Libro intimando la cacciata degli ebrei e dei musulmani). E se comparata alla ventata di razzismo xenofobo che  - alimentato da nostalgici del nazifascismo, dalla Lega e da frange ringalluzzite di cattolici reazionari – ancora in questi giorni è esploso in città di gloriose tradizioni civiche come Torino e Firenze.
    Se la tolleranza è un passo importante  - una conquista da presidiare per renderla irreversibile – non è ancora una meta. Nel futuro dell’Europa mediterranea (in cui il ruolo della Sicilia non è certo storicamente trascurabile) c’è ancora molto cammino da compiere: c’è da passare dalla tolleranza (dalla sopportazione, dal permettere che anche l’intruso mangi le briciole che cadono dalla nostra tavola) alla cooperazione, alla sinergia. La memoria del passato ce lo insegna senza equivoci: i vertici della nostra civiltà sono stati toccati quando le culture più distanti (come ad esempio i Normanni di lingua francese e gli Arabi), invece di tentare di distruggersi sulla base di rapporti di forza militare, hanno imparato a contaminarsi e a impegnarsi nella produzione di opere comuni. Cosa sarebbe Palermo senza la Cattedrale, il Palazzo reale, S. Maria dell’Ammiraglio, S. Giovanni degli eremiti e tanti altri gioielli dell’arte arabo-normanna? Cosa sarebbe la Sicilia privata da gemme uniche al mondo come il Duomo di Monreale e la Cattedrale di Cefalù?
   Al di là della facile retorica parolaia, queste feste potrebbero costituire un’occasione di riflessione e soprattutto di progettazione per la società civile, per le organizzazioni politiche, per i candidati a sindaci delle nostre città: come trasformare il disagio dell’immigrazione, più o meno clandestina, in risorsa economica e morale? Quali settori (dall’agricoltura al turismo) potrebbero trovare nelle energie fresche, e spesso assai qualificate, degli immigrati una possibilità di rilancio e di potenziamento? Sarei tentato di rispolverare un mio vecchio pallino, solo apparentemente provocatorio: perché non imitiamo l’elasticità mentale e la duttilità operativa delle cosche mafiose che sanno intrecciare abilmente le proprie strategie con le criminalità internazionali con cui le vicende storiche e i fenomeni sociologici le mettono in contatto?
    Certo, per far questo in maniera costruttiva e durevole occorre avere la predisposizione culturale adatta. Gli studiosi di scienze umane, di filosofia e di teologia dovrebbero contribuire  - molto più vivacemente di quanto accada per ora – a un mutamento di mentalità: aiutando noi occidentali a liberarci dal pregiudizio eurocentrico, dal complesso di superiorità nei confronti dei popoli che per secoli abbiamo bollato come ‘infedeli’ e ‘primitivi’. Se i Bambin Gesù dei nostri presepi non avessero le fattezze di rubicondi biondini con gli occhi azzurri, ma più realistici tratti di neonati bruni dagli occhi scuri (come tutti i bambini nordafricani che nascono in Palestina), sarebbe una prima, preziosa,  inversione di tendenza. E la Sicilia potrebbe ritornare a essere ciò che è stata in altre sue epoche gloriose: un’anticipazione profetica di ciò che dovrà essere l’umanità futura se non sceglie il suicidio collettivo.

   Augusto Cavadi

Un’occasione perduta di Raimondo Augello

                                                                                                                
                                                                
Se l’opinione pubblica non fosse giustamente concentrata in questi giorni nel seguire gli sviluppi di una crisi economica internazionale che non ha precedenti dal ’29 ad oggi, probabilmente altra risonanza avrebbero avuto i fatti che si stanno consumando in Val di Susa. In quei luoghi un movimento di popolo, da cui restano sostanzialmente escluse le logiche di partito, fatto di gente di ogni condizione, operai, professionisti, famiglie, cerca in tutti i modi di manifestare il proprio dissenso nei confronti della scelta di costruire la linea ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione. E se giusto in questi giorni Trenitalia non avesse decretato la soppressione delle linee ferroviarie a lunga percorrenza che collegano la Sicilia al Nord Italia, a decorrere dall’11 dicembre, forse non verrebbe la tentazione di porre in relazione questi due fatti apparentemente slegati e che riguardano luoghi dell’Italia tra loro tanto distanti;  ma l’inquietante e per certi versi grottesca sincronia che li accomuna impone una riflessione. Dunque, in un momento in cui si ritiene non necessario il collegamento tra città come Palermo o Catania da una parte e Milano, Torino o Venezia dall’altra, e si procede di conseguenza al “taglio” di quei “rami secchi”, determinando un’ulteriore allontanamento del Sud dal resto d’Italia, provocando come effetto “collaterale” un’ulteriore perdita di posti di lavoro (dopo la chiusura peraltro dello stabilimento Fiat di Termini Imerese), dall’altra parte d’Italia non ci si cura della volontà del popolo sovrano né dei costi in termini economici (figuriamoci ambientali) della costruzione della Tav, e pur di realizzare il sogno di un’Italia (del Nord) sempre più vicina all’Europa, anche in tempi in cui la contingenza economica planetaria suggerirebbe maggiore ponderatezza prima di imbarcarsi in spese avventate, pur di tramutare quel sogno in realtà, dicevamo, non ci si preoccupa di usare la forza inviando contro quel popolo sovrano le forze dell’ordine a caricare.
Non è questa la sede per ripercorrere le tappe della “questione meridionale” né per rievocare il nobile contributo che nel corso di questi centocinquanta anni è stato ad essa fornito da tanti illustri pensatori (e la prima stagione del pensiero meridionalista, occorre ricordarlo, fu opera di uomini del Nord Italia, onesti intellettualmente) ma tuttavia, di fronte a tale grottesca e tragica sincronia mi viene in mente quanto recentemente il governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, ospite della trasmissione di Rai 3 condotta  da Fabio Fazio ebbe a dire. Vendola, sollecitato da una domanda del conduttore, ha affermato che mentre la questione meridionale ha una sua drammatica motivazione storica ed ha avuto il suo riferimento nel pensiero di insigni filosofi ed economisti, la questione settentrionale è invece una “volgare leggenda, una menzogna creata per scopi elettorali”. Credo che fatti come quelli che stiamo descrivendo ne siano la testimonianza più evidente, e dispiace che Mario Monti, in occasione del discorso di insediamento alla presidenza del Consiglio, abbia sentito il bisogno di dire che questo governo avrà a cuore tanto la questione settentrionale quanto quella meridionale, ponendo dunque sullo stesso piano cose che affatto non lo sono.  Ci sarebbe piaciuto sentire altro dal presidente Monti, avremmo gradito udire parole rassicuranti verso un Sud da tempo alla deriva, in preda ai suoi atavici e ingravescenti mali, eppure quasi per strano paradosso capace di esprimere proprio in questi tempi una volontà di cambiamento e delle eccellenze nuove, nei sogni più proibiti avremmo forse immaginato che a coronamento dei festeggiamenti per l’unità nazionale il presidente del Consiglio avesse per primo il coraggio, tra gli uomini politici, di denunciare apertamente i torti subìti dal Meridione, il prezzo con cui ha pagato questo processo di unificazione, le stragi che ad esso si accompagnarono, le rapine, l’operazione di rimozione indotta della memoria collettiva. Ma così non è stato. Ancora un’occasione perduta.
Nel novembre scorso mi è capitato di assistere presso l’aula magna della facoltà di Giurisprudenza di Palermo ad un incontro con lo scrittore Pino Aprile, l’autore del best-seller “Terroni”, ospite in Sicilia per un tour delle università che lo avrebbe portato anche a Catania e a Messina. Ebbene, due cose mi hanno colpito in modo particolare nel suo intervento; la prima è stato l’invito alla riflessione sul fatto che al Sud Italia dal Paleolitico al 1860 il fenomeno dell’emigrazione non era mai esistito (caso mai il Meridione era sempre stato meta ambita anche per fiorenti civiltà), mentre da quella data ad oggi gli emigranti sono stati più di venti milioni: una diaspora. La seconda affermazione è che la storia d’Italia, al dire di Aprile, da un certo punto di vista non differisce in nulla da quella degli Stati Uniti o del Giappone, dove si sono svolte guerre civili laceranti, ma che la vera differenza con quei paesi è che là si conserva la memoria e il rispetto dei vinti: negli Stati Uniti la toponomastica celebra i nomi dei generali nordisti vincitori nella guerra di secessione ma anche dei generali sudisti sconfitti; da noi no. In Giappone esistono sacrari dedicati ai samurai vinti nei quali la nazione intera, tributando i dovuti onori, ritrova le radici della propria storia e le ragioni più profonde della propria convivenza; da noi no. Da noi la storia scritta dai vincitori, quella che per esempio nulla ci racconta a scuola di Gaeta o di Pontelandolfo o di Casalduni, ha voluto apporre un sigillo definitivo alla verità storica, operando una rimozione della memoria che si spiega, al dire di Pino Aprile, con la fragile e recente identità politica del nostro paese, non sufficientemente maturo per confrontarsi con verità troppo scomode che rischierebbero di avere su di essa un effetto lacerante.
Forse alla luce di tutto ciò, quanto sta accadendo in Val di Susa e in Sicilia non appare così stravagante e incoerente, forse la grottesca parabola delle ferrovie è la vera metafora capace di assumere in sé e di spiegare le contraddizioni di un paese che ha scelto con pienezza di intenti, sin dalla sua nascita, una tipologia di sviluppo a due velocità, perseguendo poi nel corso del tempo con accanita perseveranza quell’assurdo modello.              

Il paese dell’accoglienza di Raimondo Augello


Periferia torinese, alcuni giorni fa; una ragazza sedicenne racconta di essere stata violentata da due zingari, dando il via ad una spedizione punitiva di inaudite modalità e proporzioni che scatta nottetempo . A poco serve che subito dopo la presunta vittima racconti di essersi inventata tutto: soltanto l’intervento delle forze dell’ordine riesce ad evitare il peggio, dissuadendo più di un centinaio di facinorosi che brandiscono spranghe e coltelli e si sono lanciati ad una indegna caccia allo straniero, mentre i vigili del fuoco provvedono a spegnere le fiamme che alte si levano dal campo Rom. In uno scenario di panico e desolazione rimangono le macerie fumanti, quelle delle case, in cui i  Rom hanno perso tutto, anche gli scarsi guadagni delle elemosine gelosamente custoditi, e quelle dell’anima. Un paio di giustizieri della notte vengono fermati; le indagini si orientano nell’ambito dei gruppi ultras, di cui parecchi punitori pare facessero parte. Il procuratore Gian Carlo Caselli parla di un’azione di “chiara matrice razzista”, le cui modalità, d’altro canto, ricordano da vicino quelle che segnarono le gesta del famigerato Ku Klux Klan.
Ciò che qui ci preme, tuttavia, è analizzare quale risonanza questi fatti abbiano avuto nell’informazione e comprendere se quanto accaduto costituisca un episodio isolato di follia collettiva consumato sullo sfondo di un paese civile, o se piuttosto si iscriva nel contesto di una società che ha perduto la direttrice guida di certi valori verso cui potere orientare le proprie azioni. La condanna da parte delle forze politiche e degli organi di informazione è stata naturalmente unanime. Ma tra il coro di disapprovazione emerge qualche “distinguo” che denuncia sottotraccia la presenza di alcune sfumature. Taluni telegiornali, ad esempio, espressa la scontata riprovazione, hanno voluto sottolineare la natura “accogliente” della città di Torino, relegando dunque quanto accaduto ad una patologica manifestazione avulsa dal tessuto sociale e culturale entro cui essa ha trovato espressione. “Excusatio non petita, accusatio manifesta”, dicevano i Latini. Messe da parte tutte le perplessità sulla presunta “accoglienza” di una città nella quale sino agli anni del boom economico era cosa ordinaria leggere per strada i cartelli con scritto “non si affitta a Meridionali”, e di una regione che ha saputo esprimere il meglio di sé investendo della propria presidenza il leghista Cota, è il caso di concentrare la nostra attenzione  sul quesito che ci siamo posti in precedenza, cioè se si tratta di un fatto episodico oppure no. La risposta purtroppo è no. Tutti ricordano come alcuni anni addietro a Novi Ligure, dopo l’efferato delitto di Erika, l’intera cittadinanza era insorta contro gli immigrati, spinta dalle forvianti parole della ragazza che aveva accusato del massacro alcuni albanesi. E che dire del delitto di Erba, dove si verificò la stessa cosa, stavolta a danno degli Islamici? Pensate, due energumeni locali che sgozzano, tra gli altri, un bimbo (tunisino) e l’intera collettività che insorge “pre-ventivamente” e “pre-giudizialmente” contro gli Islamici. Ci sarebbe da ridere, se non  ci fosse da piangere! C’è comunque di che riflettere.
Naturalmente qui sorvoliamo sui riti lustrali delle sacre aree padane in predicato di ospitare mosche, officiati da improvvisati sacerdoti leghisti, e omettiamo anche i sempre più frequenti casi di aggressioni individuali ai danni di immigrati che si consumano in Italia, poiché ciò che ci interessa è verificare la ricaduta che sul piano collettivo i sentimenti che generano queste azioni hanno, al fine di stabilire se effettivamente siamo ancora (ammesso che lo siamo mai stati) il paese dell’accoglienza oppure no. 
I fatti di Torino, più che in Italia, hanno trovato le prime pagine di parecchi giornali esteri, come lo spagnolo El paìs, che vi ha dedicato anche foto e articoli di vibrante denuncia. Ciascuno non sente l’odore che ha addosso, ecco, forse il nostro problema è proprio questo: ubriacati da anni di imperante “cultura” leghista e di dilagante berlusconismo, oggi crediamo di poterci permettere il lusso di discettare sulla presunta “accoglienza” della città di Torino e dell’Italia intera, anche di fronte a fatti di tale portata. L’assuefazione ad una emotività il cui humus è di chiara matrice razzista da una parte, l’abitudine ad una modalità frivola ed edonistica di guardare alle cose più serie, tale da indurre anche al dispregio della cultura, dall’altra, hanno partorito il monstrum, e noi oggi forse non siamo del tutto coscienti della china verso cui il nostro paese sta scivolando. Non ci sentiamo l’odore addosso.
Qualche giornalista più avveduto, commentando quei titoli dei giornali stranieri, aggiungeva non senza un mesto imbarazzo che l’Italia, dopo la stagione del bunga bunga, continua ad essere sulle prime pagine. Forse farebbe bene a tutti la lettura di un saggio pubblicato qualche tempo fa dal giornalista del Corriere della sera Gian Antonio Stella, il cui titolo è eloquente: “L’orda: quando gli Albanesi eravamo noi”. Un libro che parecchi Italiani farebbero bene a tenere sul comodino per ritrovarvi le radici della propria storia e della propria identità umana.